Progettare il futuro
Concepire un progetto di futuro e portarlo ad esecuzione è quanto mai impresa ardua se non altro perché questa pratica vive di un profondo paradosso, quello del progettare il domani con gli strumenti di oggi. Richiede pertanto un forte spirito creativo, visionario, propenso all’innovazione con la capacità di immaginare non solo gli obiettivi ma anche il cambiamento delle condizioni e gli strumenti che si avranno (o non si avranno) a disposizione nel corso del tempo. Spesso, i progetti di sviluppo hanno un effetto parziale nel territorio perché incatenati ad obiettivi e processi precisi pensati in condizioni socio-economiche diverse da quelle che poi si realizzano. Ne sono dimostrazione le recenti crisi economiche, nonché la pandemia da Covid 19. La teoria dei sistemi complessi, evolutasi soprattutto con le nuove tecnologie informatiche che permettono processi di calcolo e previsione fino a poco tempo fa impensabili, sostiene che tali sistemi complessi come quelli economici, sociali, climatici ecc, sono dinamici, composti da un numero elevato di parti interagenti in modo non lineare (ovvero non scomponibile), che danno luogo a comportamenti globali che non possono essere spiegati da una singola legge fisica.
Ciò scaturisce l’attitudine a esibire proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le singole componenti stesse. In poche parole, i sistemi complessi si basano su una certa e inevitabile imprevedibilità.
In termini educativi si tratta dunque di imparare a sostare nell’incertezza, a cambiare direzione quando si presenta necessario, a saper anticipare relazioni di causa-effetto.
Il tutto si rende ancora più complesso in un’epoca in cui – a differenza del passato – i giovani sono meno socializzati in base a comuni idee di futuro e, schiacciati in une sorta di “eterno presente” vivono un’epoca dove è sempre più chiaro che il futuro immaginato dalle generazioni precedenti lascia a loro un debito in termini ambientali ed economici.
Che la scuola sia un’anticipazione del mondo, probabile, utopico o possibile, è una sfida che vale la pena affrontare se non altro per fornire alle giovani generazioni gli strumenti che gli saranno sempre più necessari per quella sfida ancora maggiore a cui sono chiamati: essere protagonisti della transizione ecologica che si giocherà nei prossimi 50 anni.
Imparare dal contesto
In questo scenario la scuola può giocare un ruolo fondamentale mettendo a disposizione uno strumento quanto mai efficace per lavorare su molteplici dinamiche di apprendimento: il contesto nel quale è inserita, ciò che sta fuori dalle mura scolastiche, le persone, i patrimoni, le stagioni, ecc.
L’educazione all’aperto mette a disposizione, non solo della pedagogia ma della società stessa, una rosa di competenze maturate in decenni di riflessioni filosofiche e sperimentazioni metodologiche che possono dare un grande contributo a quel cambiamento di paradigma culturale che il Pianeta stesso chiede all’umanità, per garantire alle future generazioni la possibilità di soddisfare bisogni e ambizioni.
In un contesto come quello montano, di area interna, usare il territorio come fonte e luogo di apprendimento permette di lavorare in una duplice direzione, come suggerito nei paragrafi precedenti. Da un lato fornire a bambini e ragazzi occasioni per conoscere e per fare esperienza corporea ed emozionale attorno ai luoghi di vita, dall’altro lato condividere con gli abitanti opportunità di riflessione e co-progettazione di futuri possibili, in un contesto che per sua natura dimostra fragilità ma anche opportunità di resilienza e sperimentazione di nuovi modelli abitativi che riconoscono il ruolo ecosistemico degli ambienti “antropico-selvatici”.
L’esperienza emotiva
Questo approccio non può prescindere dallo sviluppo di un rapporto continuativo, emotivo ed esperienziale con i luoghi, che siano quelli della vita quotidiana o del selvatico che li circonda. Creare un rapporto affettivo con l’ambiente è il primo e inevitabile passo dove sviluppare la sensibilità, il gusto, il rispetto, il desiderio di prendersi cura, il senso di appartenenza, lo sviluppo di autonomia e di capacità di osservazione, il piacere dell’esperienza che può essere anche soggettiva ed intima ma che trova forma attraverso la sua elaborazione condivisa. In questa dimensione trova spazio anche la sfera della fantasia e dell’immaginario, che hanno un ruolo fondamentale nella costruzione di una “visione di mondo”, nell’elaborazione di idee. Successivamente il lavoro di metacognizione può ampliarsi e riguardare la percezione del paesaggio complesso, la capacità di intravedere questioni globali negli elementi locali e di riconoscere i luoghi del quotidiano dotati di senso.
Di fronte alla difficile sfida di attuare una rivoluzione culturale basata su comportamenti ecologici e sostenibili, degli individui e delle loro comunità, la Teoria della complessità ha suggerito un’interessante direzione in ambito pedagogico e filosofico che tendono a spostare l’attenzione soprattutto sull’esperienza emotiva della natura più che sulla comprensione “scientifica” degli elementi naturali. Lo stesso Morin suggerisce alla pedagogia i “sette saperi necessari all’educazione del futuro” e tra questi vi è la capacità di collegare il globale con il locale, di conoscere i meccanismi con cui l’uomo apprende, l’identità terrestre, ma anche l’incertezza come parte della condizione umana, che va approfondita non solo per costruire un’etica del genere umano ma per conoscere la condizione umana che è quel “legame indissolubile tra l’unità e la diversità di tutto ciò che è umano”.
Prendersi cura
E’ solo quando l’essere umano si sente parte stessa del mondo e non organismo distaccato, che il suo comportamento lo porterà a considerare ogni azione rivolta verso il mondo, rivolta anche verso di sé.
La cura dell’ambiente sarà una cura verso se stesso e viceversa.
Il “fuori” offre dunque un terreno di ricerca-azione per immergersi nella complessità e sviluppare nel tempo una visione sistemica del mondo. L’esperienza all’aperto favorisce il superamento del dualismo mente-corpo, offre un’esperienza sensoriale completa che accentua la percezione critica della realtà, mette al centro l’empatia e l’emotività nei confronti del vivente, abitua all’incertezza e all’imprevedibilità, spostando l’attenzione sulla capacità di farsi buone domande piuttosto che acquisire fredde risposte, promuove l’assunzione di rischi e quindi di responsabilità, valorizza i punti di vista del singolo e la propria personale predisposizione alla conoscenza.
Queste sono le competenze necessarie per comprendere e attuare i 17 obiettivi che l’Agenda 2030 sintetizza per affrontare le sfide del prossimo decennio. Sfide che, nella loro natura globale, sembrano lontane e rivolte ai decisori politici, ma che se portate in una dimensione emotivo-relazionale non ci chiedono altro che prenderci cura del mondo, della bellezza, della diversità e di noi stessi.